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In tempo di crisi, nostalgia per gli anni ’80, i Duran Duran e il trionfo dell’ottimismo

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di Francesco Cataldo Verrina

verrinaQuesta è una triste estate per il mondo della comunicazione, un’estate opaca con poco sole molta pioggia e tante chiacchiere mediatiche e social-mediatiche sua argomenti a volte futili: ogni giorno qualcuno chiede le dimissioni di qualcun altro. Gli Italiani non sono mai stati così divisi come ora, sempre più Guelfi e Ghibellini pronti a battersi per questioni di lana caprina, reggendo le fila dell’una o dell’altra casta.
Le località geografiche più citate non sono più Rimini, Riccione, Ibiza, la Costa Azzurra, ma il Kazakistan. E poi non c’è lavoro per i giovani, mancano le idee e i soldi, mentre la pubblicità epocale è latitante (Carosello Reloaded non ha colmato il vuoto), soprattutto manca la bella musica e la canzone-tormentone dell’estate.
Per alleviare le paturnie, abbiamo deciso di fare un viaggio a ritroso fino agli anni Ottanta, quando gli Italiani, (popolo di cafoni e villani ripuliti) conosceva una nuova impennata di benessere, mentre il mondo della discografia, all’epoca ancora in vinile, si arricchiva di efebiche creature sgargianti e colorate, apparentemente di plastica, ma che rappresentavano il trionfo del mero ottimismo: balla, fatti un look e goditi la vita!
In quegli anni la musica costituiva una vera panacea per mantenere alto l’umore di una società verticale in piena scalata: non esisteva solo la “Milano da bere”, ma si bevicchiava bene da tutte le parti.
Quando i Duran Duran irruppero sulla scena mondiale era da tempo che le cronache della musica non registravano un successo di dimensioni così vistose: il punk aveva, letteralmente, distrutto il concetto di “disvismo”. All’affermazione personale, i gruppi e i musicisti punk avevano anteposto l’autodistruzione o, comunque, la negazione di uno stereotipo consumistico, dove il divo con la sua aureola d’inarrivabilità scendeva ogni tanto tra i comuni mortali “a miracol mostrare”. In passato si era assistito ai clamori improvvisi finiti subito nel dimenticatoio, soprattutto in relazione a tutti quei personaggi che, all’avvio di ogni stagione, certa stampa si precipitava a battezzare come i nuovi Beatles.
Negli anni ’80, mentre il rock raccoglieva le macerie lasciate da punk dall’hard-wave, sembrava quasi una esigenza fisiologica dello star-system, il cercare continuamente fedeli replicanti dei prototipi più fortunati ed osannati negli anni ’60 e nei primi ’70. L’affare dei cinque di Birmingham, però, mostrava connotati diversi, che prescindevano addirittura dal loro effettivo valore artistico: non poteva essere soltanto fuoco fatuo, l’incendio che si era propagato in tutto il pianeta, raggiungendo anche luoghi impensabili come Singapore, Hong Kong o Mosca. La “DuranDuranmania” (che si trascinava dietro tutto l’affare della nuova british-invasion) presentava degli aspetti assai interessanti, per via di quel contagio virale a vari livelli, che aveva mietuto numerosissime vittime anche in Italia.
Gli anni Ottanta fecero registrare molteplici cambiamenti nei costumi e nelle ideologie del universo giovanilistico. Taluni modi di essere e di agire, tipici degli anni Sessanta e Settanta, strettamente imparentati con la stessa musica rock, vennero relegati in soffitta. Bastava andare ad un concerto per rendersene conto: non si vedevano più capelli lunghi, spinelli e, più in generale, tutti quegli atteggiamenti “alternativi” ed “anti-qualcosa” che, nelle precedenti stagioni, avevano fatto da corollario al diffondersi del rock. Andare ad ascoltare musica in un palasport o in uno stadio non era più un fatto eroico, militante e romanticamente rivoluzionario.
La società degli anni ’80 aveva metabolizzato e digerito senza troppi traumi il decadente universo rock: padri e figli seguivano insieme le gesta dei loro artisti preferiti, come due bambini che si scambiano le figurine. Non c’era più nulla di trascendentale, di esoterico, di onirico in un disco o in un concerto. Da rabbioso sfogo giovanilistico e da fertile terreno espressivo di istanze di rinnovamento e di ansie di affermazione, la musica era diventata la punta più avanzata dell’intrattenimento di massa in una società elettro-industriale che, come tale, presentava i suoi codici linguistici, i suoi tabù, il suo gergo, ma sempre nel pieno rispetto e nella piena approvazione delle regole generali, perfettamente integrata e omologata nel sistema e dove la stessa pubblicità diventava un tutt’uno con l’industria del divertimento e del consumo di tempo libero.
Un cambiamento epocale nel “modus vivendi et operandi” e il contemporaneo invecchiamento naturale delle generazioni che, per prime si erano immolate sull’altare del rock, avevano condotto alla necessità di nuovi simboli, di nuovi miti: i quindici-ventenni di quegli anni non potevano, di certo, rispecchiarsi, riconoscersi in artisti come Dylan, Beatles, Rolling Stones, Doors, anche se ancora amati e rispettati.
La creazione di nuovi divi non era un fatto automatico che l’industria potesse determinare a suo piacimento. Anzi la musica degli anni passati era stata proprio caratterizzata dalla quasi totale mancanza di star, nel senso e nel modo in cui lo erano stati gli artisti prima citati. In fondo i Duran Duran, come gli antagonisti Spandau Ballet, giungevano a colmare una profonda lacuna che stava determinando anche un calo dei profitti dell’industria discografica. Osservando le foto e filmati (di quel periodo) dei Duran Duran, la prima cosa che colpisce è la bellezza e la cura dell’immagine, contrassegno saliente di un’epoca giocata anche e in particolare sul fattore estetico. Un elemento assai rilevante in un periodo nel quale la musica pop-rock veniva seguita soprattutto da un’audience femminile sempre più agguerrita.
La dominanza di quote rosa nella fruizione di musica giovanile appare decisiva per comprendere i fenomeni di divismo deflagrati nella prima metà degli anni ’80: non solo i dischi, ma tutto il merchandising e i gadgets legati al personaggio del momento, apportavano linfa a un mercato fino a quel momento stantio e aggomitolato su se stesso.
Saltava subito agli occhi, (non soltanto nel caso Durans), il fatto che l’avvenenza dei vari componenti delle band giovanili fosse di tipo “ermafroditico”, almeno il trucco e le capigiature lasciavano presagire un certa ambiguità. Fu questa un’altra istanza pienamente contemplata dai ragazzi di Birmingham. In quegli anni, le adolescenti non amano eccessivamente il macho-viril-muscoloso, ma i tipi lievemente efebici. Perfino David Bowie, anni prima, basò il successo su questo equivoco.
Sul versante videomusicale, i Duran Duran, insieme a una schiera di gruppi coevi, seppero cavalcare il mezzo più espressivo ed efficace di quel momento, creando una vera e propria fabbrica di sogni, attraverso l’arma dell’avventura, dell’esotismo, del mondi lontani e misteriosi. Quei filmati musicali erano attesi più dei kolossal cinematografici e perfino la pubblicità cominciò a ricalcarne gli stilemi: avventura e sogno rappresentavano qualcosa che esulava dalle banalità quotidiane, facendo evadere l’ascoltatore-spettatore dalla routine, risucchiandolo in una dimensione esaltante e desueta e facendolo sentire eroe anche per il breve spazio di qualche minuto. Gli adolescenti (e forse non soltanto loro) avevano un bisogno fisico, oltre che mentale, di poter credere che la loro vita potesse essere o diventare diversa da quella che era stata fino a quel momento.
La musica fu comunque la materia prima su cui i Duran Duran avevano eretto la loro tracimante popolarità, pur non differenziandosi eccessivamente da tanti altri gruppi e pur non possedendo qualcosa di specifico o di personale al fine di caratterizzarla, se non l’abilità di creare una summa e una sintesi di precedenti esperienze musicali, talvolta tra di esse antitetiche. Nonostante rimanessero nella media, avvolti almeno all’inizio da uno sorta di “aurea mediocritas”, che accomunava tutte le band del filone “new romantic”, i Duran Duran seppero imporre una formula musicale standardizzata, ma sicuramente con un fare differente, rispetto ai colleghi del periodo: una sana musica dance, con interventi strumentali dal sapore vagamente rock, spaziose escursioni di tastiere e ritmi incalzanti tesi a creare effetti e atmosfere da vivere nelle discoteche, che proprio in quegli anni, dopo i primi fasti della “febbre travoltina” si confermavano quale principale tempio di sacrifici e adunate giovanili.
Questa fu in sintesi la loro scarna ricetta, applicata e realizzata da molti altri gruppi. Nessuno, pero, raggiunse il loro livello di fama e di credibilità. Sul versante dei testi saltarono fuori novità di rilievo, che incarnavano lo spirito degli anni ’80, dove dosi massicce di sentimento venivano raccontate attraverso le emozioni più disparate: non soltanto amori riusciti, corrisposti e storie perfette o sentimenti traditi o impossibili che finivano rapidamente, relazioni sul viale del tramonto, tristezza, incomprensioni e dispiacere, ma anche divertimento, voglia di vivere e di cambiare rispetto al passato. “Wild Boys” in Italia divenne il grido di battaglia dei cosiddetti “Paninari”.
Il capolavoro i Duran Duran lo realizzarono però nel modo di vestire e di acconciarsi: convenzionale il primo, stravagante il secondo. Essi diedero forma e sostanza a una miscela estremamente funzionale, fatta di cose irraggiungibili e di altre più alla portata dei fans. Vicinanza e lontananza al contempo diedero luogo a un effetto micidiale, possibile soltanto ai divi, ossia l’essere in parte riproducibili dai loro stessi ammiratori.
Perfino nei Beatles agli inizi c’era una normalità abbordabile da chiunque, almeno nell’aspetto. Ma non erano mai copie fedeli, poiché nella loro immagine il gruppo aveva inserito degli elementi personali, irripetibili e costosi, come si addice a delle autentiche star della musica e del cinema.
La stampa, in particolare quella non specializzata, preferiva dare ampio risalto al giro del mondo in barca a vela di Le Bon, ai suo amori e ai suoi capricci, mettendolo alla medesima stregua del divi del cinema americano degli anni cinquanta, avventurosi e prestanti, anziché soffermarsi sui virtuosismi musicali o le illusorie prospettive di cambiamento del mondo attraverso la musica, come era accaduto nei decenni precedenti. Era il sintomo di anni spensierati, dove la voglia di divertimento consumato ad alta velocità e il disimpegno trionfavano sulle preoccupazioni, eppure i giovani non avevano tablet, non facevano touch screen e non erano oberati da un costante “click et nunc”.
Come non rimpiangerli quegli anni fatti di vestiti colorati, rampolli rampanti e acconciature cotonate, dove tutto sembrava un fast food o un luna park esagerato ma reale: del virtuale neppure l’ombra. Anni in cui, come in un sogno collettivo, tutto “appariva” possibile, perfino “bere Milano!

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